Malattia di Alzheimer: uno studio ha scoperto come diagnosticare la malattia due anni prima che si manifesti

L’ Alzheimer – che prende il nome dal neurologo tedesco Alois Alzheimer che all’inizio del 1900 ne descrisse per primo le caratteristiche – è caratterizzata da un processo degenerativo progressivo che distrugge le cellule del cervello, causando un deterioramento irreversibile delle funzioni cognitive (memoria, ragionamento e linguaggio), fino a compromettere l’autonomia e la capacità di compiere le normali attività giornaliere. La malattia di Alzheimer è la prima causa di demenza nella popolazione italiana e oltre 600.000 persone convivono con questa condizione.

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Quali sono le cause dell’Alzheimer?

L’1% dei casi di Alzheimer è causato dalla presenza di un gene alterato che ne determina la trasmissione da una generazione all’altra di una stessa famiglia. Il restante 99% dei casi si manifesta in modo “sporadico”, ovvero in persone che non hanno una chiara familiarità con la patologia. La causa all’origine dell’Alzheimer sembrerebbe essere legata all’alterazione del metabolismo di una proteina, la proteina precursore della beta amiloide (detta APP) che, per ragioni ancora non conosciute, a un certo punto nella vita di alcune persone inizia a venire metabolizzata in modo alterato portando alla formazione di una sostanza neurotossica – la beta amiloide – che si accumula lentamente nel cervello portando a morte neuronale progressiva.

Quali sono i sintomi dell’Alzheimer?

I sintomi dell’Alzheimer possono variare molto da soggetto a soggetto. Il sintomo più precoce a cui bisogna prestare attenzione è, solitamente, la perdita di memoria (dapprima in forma leggera e poco rilevabile, poi via via più marcata e grave). Alla perdita di memoria, che diventa con il passare del tempo sempre più importante, solitamente si associano altri disturbi come difficoltà nell’esecuzione delle normali attività quotidiane con conseguente perdita dell’autonomia, disturbi del linguaggio, impoverimento del linguaggio, disorientamento spaziale e temporale. Non è infrequente che la persona colpita da Alzheimer vada incontro ad alterazioni della personalità, mostrandosi ad esempio meno interessato ai propri hobby o al proprio lavoro

Nella dopamina la chiave per diagnosticare la malattia due anni prima che si manifesti

Attualmente le poche terapie approvate per contrastarne l’evoluzione sembrano essere efficaci solo nelle primissime fasi della malattia, per questo la ricerca in neuroscienze riveste un ruolo centrale nell’ individuazione dei meccanismi patologici sottostanti la malattia di Alzheimer. Da questa premessa è partito lo studio, pubblicato sul Journal of Alzheimer’s Disease, di Laura Serra, del Laboratorio di Neuroimmagini del Santa Lucia IRCCS di Roma, di Marcello D’Amelio, Responsabile del laboratorio di Neuroscienze Molecolari del Santa Lucia Irccs e Professore Ordinario di Fisiologia Umana dell’Università Campus Biomedico e di Marco Bozzali, Professore Associato di Neurologia dell’Università di Torino.

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Lo stesso team, all’interno della Piattaforma integrata di ricerca tra Irccs Santa Lucia e Università Campus Biomedico, coordinata da D’Amelio, aveva individuato nel 2017 nell’area tegmentale ventrale (VTA), legata alla produzione di dopamina, uno dei primi eventi nel corso di sviluppo di malattia, mediante l’utilizzo di modelli sperimentali.

“La VTA” spiega D’Amelio “è rappresentata da un’area molto piccola, che conta circa 600-700mila neuroni, piccolo numero rispetto agli oltre 80 miliardi di neuroni che compongono il cervello umano. Il nostro studio si è focalizzato sulle connessioni che si stabiliscono tra la VTA e il resto del cervello e come queste, a causa di un danno in VTA, si modificano nel corso di malattia. Il risultato, frutto di anni di ricerca, è stata la sorprendente capacità che lesioni della VTA hanno nel predire lo sviluppo della malattia di Alzheimer e l’obiettivo di quest’ultimo lavoro è stato di comprendere la finestra temporale che un’analisi della VTA è in grado di offrire prima che si sviluppino i sintomi della malattia”.

“Il setting sperimentale” prosegue Serra “ha previsto l’utilizzo di neuroimmagini funzionali e test neuropsicologici, due tecniche indolori e non invasive con cui abbiamo analizzato l’attività della VTA in 35 pazienti con disturbo cognitivo lieve, un importante fattore di rischio per lo sviluppo della Malattia di Alzheimer e di altre forme di demenza. Abbiamo quindi monitorato per 24 mesi l’evolvere della condizione dei pazienti, riscontrando che, nell’arco dei primi due anni di osservazione, in 16 dei 35 pazienti il disturbo cognitivo lieve è convertito in malattia di Alzheimer, e questa conversione è stata anticipata da una significativa riduzione della connettività della VTA verso zone cerebrali critiche per i sintomi della malattia. Nei pazienti che non hanno sviluppato la malattia, invece, la VTA ha mantenuto inalterata la sua funzione”.

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Analizzando i risultati i ricercatori sono riusciti a confermare che la riduzione delle connessioni della VTA anticipa di circa due anni i danni ad altre aree del cervello e la comparsa dei primi sintomi clinici, una finestra temporale all’interno della quale è possibile l’utilizzo di farmaci volti a contrastare l’evolvere della malattia.

“La persona che si accorge di manifestare i primi sintomi di un disturbo cognitivo”, suggerisce Carlo Caltagirone, neurologo, Direttore Scientifico del Santa Lucia IRCCS e coautore dello studio, “ha oggi molti strumenti che può utilizzare per prendersi cura della propria salute. Nella malattia di Alzheimer, secondo le evidenze scientifiche oggi disponibili, la scarsa efficacia dei farmaci sembra essere dovuta ad un uso eccessivamente tardivo delle terapie che non riescono ad interrompere la degenerazione in aree già compromesse o a migliorare il quadro clinico. Per questo è importante la prevenzione e la diagnosi precoce, in modo tale da poter affrontare la malattia con tutte le armi che la ricerca in neuroscienze mette a disposizione”.

Questo studio ha infine confermato la maggiore specificità di questa metodica nel diagnosticare con accuratezza la malattia di Alzheimer distinguendola da altre forme di demenza. Infatti, i pazienti con atrofia dell’ippocampo, area del cervello deputata alla memoria, ma senza una riduzione dell’attività della VTA, non hanno sviluppato la malattia di Alzheimer confermando i precedenti studi che riscontravano nella sinergica presenza di atrofia cerebrale e disconnessione di VTA eventi legati alla presentazione precoce dei sintomi clinici della malattia.

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