Il Pozzo della Disperazione: l’esperimento sulla Depressione di Harry Harlow


The Nature of Love, La Natura dell’amore: quante promesse in questo titolo, quante speranze di trovare spiegazioni a un sentimento che, da sempre, “move il sole e l’altre stelle”. In realtà, con il discorso chiamato appunto The Nature of love, lo psicologo statunitense Harry Harlow espone ai colleghi, in un convegno del 1958, i risultati dei suoi esperimenti sull’importanza del rapporto madre-neonato, condotti su macachi rhesus.

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Più avanti negli anni, una lunga malattia e poi la morte della moglie, portano Harlow a soffrire di una forte depressione, tanto che viene curato anche con l’elettroshock. Lui torna al lavoro, ma a detta dei colleghi non sembra più lo stesso, e difatti i suoi esperimenti, sempre effettuati sugli sfortunati macachi, dalla natura dell’amore si spostano in un campo ancora più complicato: la natura della depressione, spesso connessa ad un patologico desiderio di solitudine

Per far questo Harlow mette a punto una gabbia, che chiama “fossa (o pozzo) della disperazione”, non esattamente una terminologia tecnica, che poi troverà un nome meno inquietante: apparato a camera verticale.

Apparato a camera verticale di Harlow

Lo psicologo però ci tiene a chiamare quella gabbia con nomi più evocativi, come “prigione della disperazione” o “pozzo della solitudine”, mentre i colleghi gli fanno notare che quegli appellativi così drammaticamente descrittivi sarebbero stati controproducenti a livello scientifico.

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In quei nomi così angoscianti sono già contenuti tutti gli aspetti di quell’esperimento: crudeltà e sofferenza che si protraggono per un tempo assai più lungo del necessario, come d’altronde afferma uno degli studenti di Harlow, William Mason, che poi dirà: “Ha continuato fino al punto in cui era chiaro a molte persone che il lavoro stava davvero violando la normale sensibilità, che chiunque abbia rispetto per la vita o le persone lo troverebbe offensivo.” Oggi si potrebbe dire che quegli esperimenti non erano offensivi, ma raccapriccianti.

Harlow scrive: “Gli esseri umani depressi riferiscono di trovarsi nelle profondità della disperazione o sprofondati in un pozzo di solitudine e disperazione. Perciò abbiamo costruito uno strumento che rispondesse a questi criteri e lo abbiamo chiamato eufemisticamente fossa, o camera verticale, per coloro che trovano psicologicamente inaccettabile il termine fossa”.

Quello “strumento” è una gabbia, che ha la forma di una piccola piramide rovesciata, con i lati di freddo metallo inclinati verso il basso e un pavimento di rete per consentire la raccolta degli escrementi. Nella gabbia vengono rinchiusi dei piccoli che hanno già avuto, per circa tre mesi, dei rapporti sociali con altri macachi. Interrompere ogni interazione ha lo scopo di provocare i sintomi della depressione. All’improvviso quei cuccioli si ritrovano al buio, senza possibilità di guardare all’esterno (gli scienziati possono osservarli grazie a uno specchio unidirezionale), mentre l’unico contatto con un essere vivente è costituito dalle mani di chi mette giornalmente cibo e acqua e cambia la lettiera.

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Un piccolo di scimmia in una delle camere di isolamento di Harlow. La fotografia è stata scattata quando la porta della camera è stata sollevata per la prima volta dopo sei mesi di totale isolamento

Le scimmiette provano, per qualche giorno, ad arrampicarsi su per quelli pareti scivolose, poi rinunciano. Harlow commenta: “La maggior parte dei soggetti assume tipicamente una posizione curva in un angolo della parte inferiore dell’apparato. Si potrebbe presumere a questo punto che trovino la loro situazione senza speranza”.

I “soggetti”, divisi in gruppi da quattro, vengono lasciati in isolamento per periodi diversi: per trenta giorni, per sei mesi e per un anno. Ne risulta che gli “isolati totali” per trenta giorni escono “enormemente disturbati”, mentre quelli rimasti dentro le gabbie per un anno non sono quasi in grado di muoversi, e una volta messi fuori non si interessano a ciò che li circonda, non giocano e non riescono ad avere rapporti sessuali. Quando vengono messi in compagnie di altre scimmie, subiscono atteggiamenti aggressivi. Due delle scimmie isolate per un anno, appena fuori dalla fossa della disperazione, si lasciano morire di fame.

Harlow vuole poi constatare come e quanto l’isolamento abbia influito sulla capacità genitoriale dei “soggetti” vissuti in isolamento. Ma c’è un problema: quelle scimmie non sono in grado di avere rapporti sessuali, così lo psicologo mette a punto la “rastrelliera dello stupro” (lo scienziato aveva decisamente una predilezione per termini scioccanti), dove una femmina viene legata nella classica posizione dell’accoppiamento, per essere poi messa incinta da una scimmia maschio sano. Quelle povere scimmie, scopre Harlow, non provano nessun sentimento materno né di accudimento, anzi, talvolta si mostrano violente nei confronti dei loro cuccioli: una schiaccia la testa del figlio, un’altra gli morde le dita dei piedi e delle mani, mentre la maggioranza semplicemente li ignora.

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Si potrebbe cogliere una sorta di sadico compiacimento nelle conclusioni di Harlow: Nemmeno nei nostri sogni più subdoli avremmo potuto progettare un surrogato così malvagio come lo erano queste vere madri scimmia…Alla fine, tutta quella sofferenza porta a pochi risultati: se anche Harlow può trarre informazioni sullo sviluppo psico-fisico delle scimmie in condizioni di isolamento, non può certo dichiararsi soddisfatto per quanto riguarda la sua ricerca sulla depressione, sulla cui natura non impara poi molto.

Come non essere d’accordo con uno dei critici dello scienziato, che nel 1974 scrive: “Harry Harlow e i suoi colleghi continuano a torturare i loro primati non umani decennio dopo decennio, dimostrando invariabilmente ciò che tutti sapevamo in anticipo: che le creature sociali possono essere distrutte distruggendo i loro legami sociali”.

Eh sì, perché Harlow e la sua equipe arrivano a tenere in isolamento totale alcuni macachi anche per 15 anni consecutivi, negli esperimenti che riguardano i legami madri-neonati.

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Il macaco in isolamento sviluppa comportamenti tipici dell’autismo


In effetti quegli esperimenti, anche se protratti per tempi ingiustificati, hanno il merito di dimostrare che l’attaccamento del bambino alla madre non è solo una questione di sopravvivenza, ovvero il cucciolo non cerca solo cibo e calore, ma instaura con essa un rapporto unico, fondamentale al suo sviluppo psicofisico.

Se oggi queste conclusioni possono sembrare ovvie, occorre ricordare che negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso era preminente la tesi, sostenuta dallo psicologo comportamentista John Watson (quello dell’esperimento sul piccolo Albert), che i bambini, per crescere bene, avessero bisogno solo di cibo adeguato e igiene, mentre un rapporto troppo affettuoso, fatto anche di contatto fisico, avrebbe creato problemi nello sviluppo di una personalità indipendente.

La piccola scimmia si avvicina alla madre surrogata di stoffa nel test della paura

Diversi psicologi mettono in dubbio queste teorie, che comunque condizionano fortemente l’atteggiamento di genitori ed educatori negli Stati Uniti, per decenni. Harlow inizia a studiare il comportamento di piccoli macachi allevati da madri surrogate inanimate, sagome di ferro nudo, in un caso, e nell’altro ricoperte di morbido tessuto.

I cuccioli che hanno madri “morbide” crescono con meno problemi degli altri: il conforto fornito dal contatto fisico è fondamentale per il benessere del cucciolo che, anche quando prende il latte dalla madre di ferro, poi corre a rifugiarsi da quella di stoffa.

Madri surrogate di ferro nudo e di stoffa

Insomma, l’idea rivoluzionaria (per l’epoca) è che l’allattamento materno, oltre a essere fonte di cibo, serve a rafforzare il rapporto madre-figlio grazie al contatto fisico, utile a superare anche momenti di stress durante i “test della paura”, e a infondere sicurezza al cucciolo, che in presenza della madre (anche se surrogata) riesce ad affrontare in autonomia situazioni nelle quali, appunto, prova paura.

Questi studi contribuiscono al successo di Harlow, che rimane uno degli psicologi più citati del XX secolo.

La Fossa della disperazione invece, gli vale molte critiche, per la totale mancanza di etica, cosa che contribuirà alla nascita dei movimenti contro la sperimentazione sugli animali. Dal canto suo, Harlow non mostra mai segni di “compassione” nei confronti di quei piccoli macachi, tanto che nel 1974 afferma: “L’unica cosa che mi interessa è se le scimmie risulteranno una proprietà che posso pubblicare. Non ho alcun amore per loro. Mai averne. Non mi piacciono proprio gli animali. Disprezzo i gatti, odio i cani. Come potrebbe piacerti una scimmia?”.

Il piccolo macaco impaurito si raccoglie “a palla”

Anche se molte cose sono cambiate da allora la sperimentazione sugli animali non è certo una pratica abolita, ma in tempi più moderni ricerche “superflue”, come quella del pozzo della disperazione, in grado di dimostrare soltanto l’ovvio, dovrebbero essere un ricordo del passato. Quanto ad Harlow non ricava alcun beneficio dai suoi studi sulla depressione: lui sarà afflitto da questa malattia, complicata dall’abuso di alcolici, fino alla morte, avvenuta nel 1981.

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