Infanticidio in Italia: casi e fattori di rischio

Il delitto di Cogne ebbe un grande impatto mediatico e divise profondamente l’opinione pubblica. Nella foto, la villetta in cui nel 2002 fu ucciso il piccolo Samuele

E’ già successo che una madre, agli occhi di tutti amorevole e accudente, uccida il figlio. Il caso più eclatante avviene il 30 gennaio 2002. In una villetta di Montroz a Cogne viene massacrato il piccolo Samuele Lorenzi. I soccorritori, chiamati dalla madre, Annamaria Franzoni, lo trovano agonizzante con gravissime ferite alla testa. Samuele morirà poco dopo, durante il trasporto in ospedale.

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– L’8 settembre 2005 a Merano un bambino di quattro anni viene ucciso a coltellate dalla madre mentre stava facendo colazione con pane e marmellata. La donna, 39 anni, tenterà il suicidio gettandosi da una finestra del secondo piano del commissariato di polizia durante l’interrogatorio.

– Il 18 maggio 2005 in provincia di Lecco una donna di 29 anni racconta di essere stata aggredita in casa mentre faceva il bagno al figlio di 5 anni. Durante l’aggressione, mentre lei si stava difendendo, il bambino sarebbe scivolato nell’acqua e sarebbe morto. La notizia però si rivelerà falsa. Ad uccidere il piccolo era stata la donna che due settimane dopo, confessa.

– Il 20 luglio 2009 a Parabiago, in provincia di Milano, un’altra mamma uccide il figlio di 4 anni, strangolandolo con un cavo elettrico.

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– Il 19 febbraio 2010 a Venezia una donna di 47 anni uccide il figlio, un bimbo di sei anni, soffocandolo nel suo letto. Poi si uccide, impiccandosi. A scoprire i corpi è il marito.

– Il 9 agosto 2011 nel mare della Feniglia a Orbetello (Grosseto) una commercialista romana di 48 anni uccide il figlio di 16 mesi annegandolo dopo essersi allontanata con lui dalla spiaggia su un pedalò.

– Il 6 marzo 2013 in Calabria una madre di 43 anni uccide il figlio di 11 anni con un paio di forbici. La donna ha fatto uscire prima del termine delle lezioni il bambino da scuola, lo ha portato in una zona di montagna e poi lo ha sgozzato.

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– Il 25 ottobre 2013 in provincia di Lecco, ad Abbadia Lariana, una donna uccide il figlio di tre anni, il primo dei suoi due figli, infierendo più volte sul corpo del bambino.

– Agosto 2020, la ricostruzione degli inquirenti vede Viviana Parisi lanciarsi da un traliccio per togliersi la vita dopo aver ucciso suo figlio Gioele nei pressi della contrada Sorba a Caronia (Messina) lo stesso giorno della scomparsa, 3 agosto 2020.

Madri che uccidono i figli

Quelli che raggiungono le pagine di cronaca sono solo alcuni dei casi di infanticidio che si consumano nel nostro paese.

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In Italia, negli ultimi anni, si verificano circa 15 casi di infanticidio materno all’anno (nella statistica sono inclusi solo i casi di figlicidio a opera materna ma sono esclusi tutti i casi di infanticidio operati da altri familiari), in passato le percentuali erano molto più alte, spiega Bramante, psicoterapeuta e criminologa clinica: «Nella mia esperienza clinica e forense ho conosciuto circa 50 donne che hanno ucciso il loro bambino».

Secondo Bramante in Italia l’attenzione all’aspetto preventivo è carente. Contribuisce lo stigma verso la malattia mentale in generale, ancora di più quando è legata alla gravidanza e alla nascita di un bambino. «Viviamo con l’idea che diventare madre sia solo fonte di gioia e che inserire uno screening per la depressione durante il percorso di maternità sia una forzatura e un modo per psichiatrizzare la gravidanza».

Medici di famiglia e operatori sanitari sono poco formati

Da circa due anni sembra esserci più attenzione e anche le istituzioni hanno finanziato in tutta Italia progetti sulla depressione perinatale. «Nonostante ciò, tra gli operatori c’è ancora poca conoscenza della psicopatologia perinatale così come dell’uso dei farmaci in gravidanza e allattamento».

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La gestione della sanità in Italia è disomogenea e la salute mentale non fa eccezione. «Le diverse realtà locali e regionali lavorano spesso con protocolli e metodologie diverse, differenze nell’offerta alle donne e mancanza di una buona rete tra i servizi territoriali. Sarebbe importante introdurre, come routine clinica durante il percorso di maternità, uno screening per l’identificazione precoce delle donne a rischio», continua Bramante.

«La prevenzione, cioè l’individuazione precoce dei disturbi mentali perinatali durante la gravidanza, è fondamentale in primis per permettere una tempestiva e adeguata presa in carico, ma anche per evitare le gravi conseguenze cui vanno incontro la mamma, il feto neonato e l’intera famiglia nel caso di patologie non diagnosticate».

Uno screening generalizzato, per tutte le donne, avrebbe anche il vantaggio di ridurre lo stigma. Potrebbe essere anche un passo nella direzione di accettare che esiste un lato «oscuro» della maternità, che non va negato ma gestito.

La vita dopo l’infanticidio

Che vita è quella dopo un evento del genere? «Le mamme infanticide che ho incontrato hanno fatto un lungo percorso di recupero prima di tornare a vivere una vita autonoma. Alcune più fortunate sono state accolte e aiutate dai familiari, altre hanno dovuto fare tutto da sole, alcune rimanendo a vita dentro strutture psichiatriche», racconta Bramante.

Non è facile ricominciare a vivere con la mancanza del loro bambino, mancanza di cui loro stesse sono la causa, spiega, in una società che non perdona e non aiuta. «Ho comunque conosciuto donne di forte carattere, che nonostante le mille difficoltà si sono comprate casa e hanno cercato di lavorare e recuperare una parvenza di serenità. Certo, proseguendo le cure necessarie per stare bene».

«In nessuna delle storie che conosco le donne hanno avuto figli dopo la tragedia, nonostante alcune di loro avessero una relazione affettiva stabile. Probabilmente il trauma e la paura non hanno loro permesso di rimettersi in gioco in questo senso».

Fattori di rischio

La letteratura scientifica e forense mostra che vi sono alcuni fattori di rischio che aumentano la probabilità di infanticidio materno. Ma Hatters-Friedman, scienziata neozelandese autorice dello studio «Child Murder by Mothers: Patterns and Prevention» in «World Psychiatry» è cauta: «Dobbiamo tenere presente che sono crimini molto rari, quindi quando parliamo di fattori di rischio sappiamo che molte madri che pur evidenziandoli non commettono infanticidio».

Fra le madri neonaticide, le statistiche evidenziano che moltissime non hanno avuto nessun tipo di assistenza prenatale o contatti con un’ostetrica. Si tratta spessissimo di donne molto giovani, molto stressate e – specie negli Stati Uniti – di ragazze che hanno abbandonato la scuola. Ci sono però anche alcuni fattori di rischio specificamente relativi ai figli. «Dalla letteratura sembra che le coliche nei bambini di pochi mesi possano aumentare i pensieri omicidi nelle madri. Altre condizioni, come autismo e disabilità, possono elevare il rischio», racconta Hatters-Friedman.

La casistica cresce inoltre con la presenza di problemi di salute mentale nei genitori, di dipendenza da stupefacenti o da alcolici, psicosi o altri disturbi, come la depressione. Anche problemi mentali non gravi, come per esempio la difficoltà a gestire la rabbia, possono peggiorare il quadro.

Grande attenzione viene posta poi sulla depressione post-parto. Molte donne ne soffrono, in media una su cinque. «Il 20per cento. Sono numeri altissimi. È chiaro che un quinto delle madri non finisce per fare del male al proprio bambino», commenta Hatters-Friedman. «Quindi nel fare prevenzione, anche se sappiamo che è un fattore di rischio, cioè che le donne che hanno commesso questo crimine ne hanno nella maggior parte dei casi sofferto, dobbiamo essere cauti. Non dobbiamo allarmare le donne suggerendo loro che potrebbero far male ai loro bambini, perché nella stragrande maggioranza dei casi non sarà vero e rischiamo di peggiorare la loro condizione di stress».

«Come società, il nostro dovere è dare attenzione alle madri, specie quelle con difficoltà, e attraverso il sistema sanitario pubblico individuare quelle che soffrono di depressione, aiutandole a seguire una terapia che le faccia stare meglio. Solo a questo punto possiamo forse iniziare a capire quali sono le donne più a rischio», conclude la scienziata neozelandese.