I negazionisti del Covid: il diniego psicologico

Illustrazione: Peter Arkle

Qual è la spinta psicologica profonda che porta una persona a negare le realtà evidenti dell’epidemia di COVID-19? È un classico meccanismo di difesa legato alla paura, che la psicoanalisi – la disciplina che l’ha studiato più di ogni altra – definisce “diniego psicologico“. Per questo anche i discepoli di Freud e Jung dovrebbero essere coinvolti nella lotta al negazionismo.

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Se ne occupano esperti di salute pubblica, studiosi di comunicazione del rischio, psicologi e anche influencer. Ma per affrontare con efficacia il negazionismo su COVID-19 – negare che la malattia sia poi così grave, negare l’utilità degli sforzi per prevenirla o, all’estremo, negare addirittura che il virus esista – bisognerebbe arruolare anche un’altra categoria: gli psicoanalisti.

La non adesione di massa alle raccomandazioni mediche negli Stati Uniti è un fatto unico nella storia moderna. Mai prima d’ora tanti cittadini hanno avuto un tale accesso all’informazione e, allo stesso tempo, hanno rifiutato le raccomandazioni di salute pubblica con una negazione così accalorata dei dati di fatto“, scrivono su “Lancet” Austin Ratner, che a New York è uno scrittore ed esperto di psicanalisi laureato in medicina, e Nisarg Gandhi, specializzando al Saint Barnabas Medical Center di Livingston, in New Jersey. In questo rifiuto, i due vedono la manifestazione di un classico meccanismo di difesa psichico noto agli psicoanalisti: il diniego psicologico.

Il diniego psicologico

Il concetto di diniego è stato invocato per spiegare gli atteggiamenti riguardo a COVID-19 così come al cambiamento climatico e ad altri rischi gravi, ma non se n’è mai fatto un uso sistematico per affrontarli, spiegano i due. “Secondo noi è giunto il momento di farlo: chi si occupa di salute pubblica deve includere lo studio e il trattamento del diniego psicologico fra gli strumenti per contrastare la mancata adesione.” Per questo bisogna costruire una nuova partnership tra la psicologia sperimentale, la salute pubblica e la psicoanalisi, la disciplina che per prima ha postulato questi meccanismi di difesa ed è tuttora la più dedita a studiarli e trattarli.

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Rifiutare il cambiamento

È una tesi convincente“, dice a “Le Scienze” Vittorio Lingiardi, psichiatra, psicoanalista e docente di psicologia dinamica alla Sapienza-Università di Roma. “Riguardo a COVID-19, fra i miei pazienti alcuni erano più propensi a minimizzare il pericolo, se non a negarlo, per poter non cambiare niente nella loro vita e non affrontare i limiti che la minaccia imponeva. Altri invece ingigantivano la paura e rifuggivano da una qualunque possibile negoziazione con il cambiamento oggettivo. In realtà, però, queste due dimensioni convivono dentro ciascuno di noi e dobbiamo di continuo negoziare questa tensione. E questo è proprio il sistema dei meccanismi di difesa: il modo in cui un individuo, nei suoi pensieri, affetti, comportamenti, risponde a una sorgente minacciosa, che sia esterna, o che venga dall’interno in termini di paure, fantasie, ricordi.

I tempi sono ormai maturi per la collaborazione con gli psicoanalisti, secondo Ratner e Gandhi, anche perché si stanno allentando le tradizionali barriere disciplinari, alimentate da un lato dalla tendenza degli psicoanalisti a uno “splendido isolamento”, a rifiutare l’onere della prova delle loro idee e la collaborazione con gli psicologi sperimentali, e dall’altro lato dalla diffidenza o dal disdegno di molti altri specialisti verso la psicoanalisi.

Oggi si tende a distinguere sempre meno tra mente e cervello, si sa che sono la stessa cosa. E sono state trovate basi neurofisiologiche per tanti aspetti della tradizione psicodinamica”, dice Lingiardi. “Questo ha ridotto le diffidenze e il campanilismo scientifico. E, in clinica, sta venendo meno l’idea che ci sia un modello unico a cui tutti i pazienti devono aderire, e si riconosce che pazienti diversi rispondono meglio a modelli diversi. Ciò ha creato una comunità meno litigiosa e più aperta al dialogo e alle collaborazioni. Lo segnala il fatto stesso che questa lettera sia stata pubblicata su ‘Lancet’, dove di rado trovi riferimenti al funzionamento psicologico e specialmente a un costrutto fondativo della psicoanalisi come i meccanismi di difesa.”

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La paura che c’è dietro

Quindi la psicoanalisi come può aiutare ad affrontare il diniego? “Ovviamente non si può trattare individualmente ciascun caso. Ma si può istruire sul fenomeno il personale medico e istituzionale che si relaziona alla popolazione, e aiutarlo a creare messaggi efficaci, che tengano conto delle difese inconsce“, spiega Ratner a “Le Scienze”. “Per esempio gli psicoanalisti possono aiutare a capire, e a saper usare nelle relazioni, il fatto che dietro la negazione c’è sempre la paura, per la salute, per il lavoro o altro. O che nelle irrazionalità e anche negli attacchi c’è a volte il sentirsi abbandonati, e quindi non basta un messaggio di rassicurazione ma serve anche una presa in carico, il far sentire che si può contare su servizi pubblici, scuole, ospedali“, esemplifica Lingiardi.

Questi e altri esempi smontano anche una critica rivolta alla proposta: che un approccio simile rischi di patologizzare il diniego, come se fosse un disturbo da curare e non, molte volte, la manifestazione (seppur pericolosa e criticabile) di un disagio.

Al momento però – osserva Ratner – la questione principale non è tanto cosa e come, ma chi: dobbiamo reimmaginare le figure professionali che contrastano la non-adesione. Gli psicoanalisti hanno una formazione clinica unica nel riconoscere le difese (non solo il diniego ma anche altri meccanismi in gioco) e lavorarci intorno. Consideriamo un’analogia: se hai un eczema psicosomatico, un dermatologo può curare i sintomi, ma non la causa sottostante. Per quella ti serve uno psicoterapeuta: una figura professionale diversa.

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Dato che finora gli psicoanalisti non si sono dedicati a interventi simili, i programmi d’azione e le strategie per realizzarli non sono ancora definiti. “Gli psicoanalisti devono essere coinvolti nello scriverli. Ma posso già fare qualche riflessione su come potrebbero essere e cosa potrebbero dare in più rispetto a un’ordinaria checklist di comunicazione del rischio“, aggiunge Ratner.

Formare gli operatori sociali

Un’idea è far lavorare nella comunità operatori sociali di formazione psicanalitica che aiutino a veicolare i messaggi di salute pubblica. “C’è qualche precedente con risultati dimostrabili”, afferma Ratner. In uno studio ultradecennale, per esempio, il pediatra David Olds ha fatto lavorare alcuni infermieri con madri di neonati in contesti sociali ad alto rischio, per ridurre l’uso di punizioni corporali sui bambini e stabilizzare l’attaccamento madre-figlio. E ha dimostrato che questi ragazzi, a 18 anni, erano meno a rischio di psicopatologie e criminalità. L’epidemiologo Gary Slutkin, invece, ha impiegato “messaggeri credibili” (come ex membri di una gang) per fermare la violenza, con un lavoro sulla comunità basato semplicemente su dialogo e counseling, e ha dimostrato che funziona.

Operatori sociali che hanno dimestichezza con le difese psicologiche, provenienti da comunità in cui dilaga il diniego di COVID-19, potrebbero aiutare a creare una campagna di comunicazione più credibile. Gli psicoanalisti, inoltre, dovrebbero istruire i leader governativi circa i meccanismi di difesa, e fare da consulenti a chi scrive loro i discorsi. Quando c’è da comunicare con persone reali, in tutta la loro complessità, una generica checklist non può sostituire la formazione e l’esperienza clinica. Né può tenere conto di come il pensiero difensivo si manifesta specificamente in una data regione o in una particolare crisi. Serve un lavoro più articolato e ricco di sfumature”, dice Ratner.

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L’ostilità nella categoria

Non tutti, comunque, sono convinti. Anche se molte barriere disciplinari stanno cadendo, tanti psicologi restano ancora ostili alla psicoanalisi, ritenendone screditate le idee e le pratiche. Così, Richard McAnulty, psicologo alla University of North Carolina a Charlotte, ha liquidato l’intera nozione di difese inconsce e la psicoanalisi stessa come ascientifiche e non verificabili.

“Questa sua visione è erronea, facile da confutare, e così obsoleta che potrebbe configurarsi come malpractice”, ribatte Ratner. “Il verdetto c’è stato, ed è che Freud aveva ragione: l’inconscio e le difese inconsce non solo sono verificabili, ma sono costrutti validati. E riguardo all’efficacia, la psicoterapia psicoanalitica funziona e ha benefici più duraturi di molte altre forme di terapia. La crisi di salute pubblica costituita dal diniego ci impone di cessare le guerre intestine sullo status scientifico della psicoanalisi, e mettere all’opera la scienza che studia le difese.