Cutting, quegli adolescenti convinti di non piacere


La maggior parte pensa di essere oggetto di critiche e di non avere amicizie sincere. A sostenerlo una ricerca pubblicata su EClinicalMedicine

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Il cutting non è quasi mai associato alla volontà di togliersi la vita ma anzi manifesta il desiderio di esistere, tuttavia rientra in quei comportamenti classificati come autolesionistici, insieme al burning (bruciarsi con le sigarette), il branding (marchiarsi a fuoco) e al grattarsi fino a farsi uscire il sangue. Dunque è di per sé da non sottovalutare, in quanto attacchi più o meno forti verso sé stessi.

NON solo una tendenza a farsi del male fisico. Spesso chi ricorre all’autolesionismo, interpreta la realtà in maniera particolarmente pessimistica, credendo di essere poco stimato dagli altri anche se non è così. A suggerirlo una ricerca condotta su un campione di circa 60 adolescenti, pubblicata su EClinicalMedicine.

I ricercatori hanno utilizzato un test online in grado di simulare le interazioni relazionali dei social media tra i giovani: ogni ragazza presa in esame nello studio veniva presentata con una foto rispetto alla quale le altre partecipanti dovevano esprimere il proprio giudizio, positivo o negativo.

A ogni ragazza è stato chiesto poi di commentare il feedback ricevuto dalle coetanee, esprimendo cosa ne pensava. Anche se il numero di giudizi positivi e negativi era in realtà lo stesso per tutte, le adolescenti che sperimentano l’autolesionismo hanno creduto di aver ricevuto più giudizi negativi di quanto non fosse in realtà, mostrando maggiore sensibilità nei confronti dei feedback ricevuti.

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Un aspetto emerso anche dalle analisi di risonanza magnetica che mostrano una maggiore attivazione di alcune aree cerebrali – in particolare quelle associate alle emozioni e alla riflessione durante l’attesa del giudizio altrui – nelle adolescenti che sperimentano l’autolesionismo.

“Da questo studio emergono due dati interessanti relativi all’autolesionismo non suicidario e cioè che sia il genere che lo stress sociale nei giovani stanno assumendo un ruolo sempre più importante nella comprensione di questo disturbo.

Mentre infatti in età adulta l’autolesionismo risulta interessare in modo piuttosto equiparabile i due sessi, durante l’adolescenza questa pratica sembra per lo più presente nelle ragazze”, spiega Vera Cuzzocrea, psicoterapeuta dell’Ordine degli psicologi del Lazio, esperta in psicologia giuridica e comportamenti a rischio in adolescenza.

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Purtroppo per la carenza di rilevazioni e informazioni sugli effettivi casi – che spesso non arrivano all’attenzione del sistema sanitario proprio perché l’intento non è quello suicidario -, “l’incidenza di questo disturbo – stimata attorno al 15% degli adolescenti – è più che sottostimata”, aggiunge l’esperta.

I segnali d’allarme

L’autolesionismo non è solo un modo per comunicare un disagio che non si riesce a verbalizzare: molto spesso vi si ricorre per fronteggiare il dolore emotivo che si sente interiormente traferendolo sul proprio corpo o ancora per autopunirsi del proprio comportamento, ritenuto fallimentare o inefficace.

Tra i fattori di rischio oltre all’isolamento e lo stress sociale, anche i bassi livelli di autostima, “la presenza di un disturbo psichiatrico e l’aver vissuto durante l’infanzia e l’adolescenza esperienze di abuso e maltrattamento intrafamiliare”, fa notare Cuzzocrea, che aggiunge: “Va considerata in tal senso anche l’esposizione a comportamenti a rischio come il gioco d’azzardo, le condotte sessuali promiscue, il bullismo e il cyberbullismo.

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Tra i segnali e le manifestazioni di disagio da non sottovalutare, anche il cambiamento nell’andamento scolastico e quello repentino dell’umore, “ma soprattutto – spiega l’esperta – la tendenza dell’adolescente a restare troppo spesso in solitudine, chiuso nella sua stanza o in bagno, ambienti favorevoli per chi ricorre all’autolesionismo ed emblema della distanza che si pone tra sé e gli altri”.

Scuola e famiglia hanno un ruolo fondamentale sia nel porre attenzione alla possibilità che l’adolescente già ricorra a queste pratiche, sia nella prevenzione dell’autolesionismo, come spiega Cuzzocrea: “La condivisione dei problemi che l’adolescente incontra in questa fase della sua esistenza, l’ascolto attivo, il dialogo, livelli adeguati di supervisione, sono lo strumento più importante che abbiamo, come genitori o insegnanti, per aiutarlo a trovare i giusti e salutari mezzi per affrontare la comparsa di eventuali problematiche.

Un aiuto nella rilevazione e nel necessario supporto psicologico può essere offerto anche grazie alla presenza di sportelli di ascolto nelle scuole o di spazi dedicati all’interno dei consultori familiari, quando presenti nel territorio di competenza. Il lavoro sinergico nella prevenzione primaria anche attraverso delle politiche di sensibilizzazione in tal senso sarebbe quanto più necessario anche in considerazione della diffusione del fenomeno tra i giovanissimi e l’effetto emulativo anche potenziato dalla rete”.

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Come si affronta

Essendo oramai considerata una categoria diagnostica a sé e non più un sintomo di altri disturbi, “l’autolesionismo può essere trattato con interventi mirati: gli approcci terapeutici a matrice cognitivo-comportamentale – spiega l’esperta – sembrano particolarmente efficaci in tal senso, se orientati anche a supportare l’adolescente nello sviluppo o potenziamento di relazioni sociali positive, fattore protettivo di rilievo in adolescenza”.

Nel caso in cui nell’adolescente siano presenti altri disturbi psichiatrici o dell’umore, come ansia e depressione, “si potrà valutare attentamente se attivare anche un supporto farmacologico con la collaborazione di un professionista neuropsichiatra infantile”, aggiunge Cuzzocrea, che conclude: “Il fattore tempo nell’identificazione di questa modalità di danneggiare il corpo è fondamentale, perché se trattata fin dalle prime avvisaglie, ci sono buone probabilità di riuscire a ottenere una remissione completa dei sintomi.

Al contrario, se il disturbo non viene trattato, il disagio evolutivo segue una linea disadattiva nel tempo e può diventare esso stesso un fattore di rischio di comportamenti suicidari in età adulta”.

FONTE|LA REPUBBLICA